Sénégal: Dakar - 08/11/2010: Ho tanto sperato fosse femmina. L'importanza del nome di un neonato.

Venerdi 5 novembre Adja ha dato alla luce una bambina.

Stavo andando al lavoro. Alle 7.40 mi arriva un messaggio di Boss che mi annuncia il lieto evento. Ma come? Doveva arrivare a Dicembre. E invece è arrivata così, all’improvviso. Aveva voglia di incontrarmi, mi dico.

Chiamo Boss immediatamente. “Félicitations!”. E inizio una serie di auguri pieni di gioia e di commozione. Chiedo anche se la bimba mi somiglia, tanto sono eccitata. Boss ride e mi dice che si, mi somiglia!! Ci diamo appuntamento alla sera in clinica.

Ho sperato così tanto che fosse una bambina. Non so, io mi son messa in testa che se un giorno qualcuno decidesse di battezzare una bambina con il mio nome qui in Senegal, significherebbe essere davvero entrata in questo nuovo mondo.

L’Omonime (persona che da il nome a un nuovo nato) è di enorme importanza per la vita del bambino. E’ una specie di seconda madre o secondo padre. Non so se è come un padrino o una madrina, ma sicuramente comporta una certa responsabilità. Se Adja desse il mio nome a sta nuova creatura, mi sentirei un po’ mamma pure io. E avrei il diritto di educarla, nonché il dovere. Ma avere un ruolo nella comunità di un paese che non è il mio, mi darebbe uno strano potere e senso di appartenenza.

Si, io spero che questa bambina si chiamerà Roberta. Il battesimo sarà venerdi prossimo. Ci sono già 4 persone che han detto che probabilmente le verrà dato il mio nome. Ma qui non si può sapere il nome del bambino fino al giorno del battesimo. E così aspetterò, impaziente, di sapere se mi daranno questo ruolo tanto desiderato.

Non so perché io dia tanta importanza a questa faccenda del nome, e probabilmente gli altri immigrati in Senegal non pensano minimamente a questo quando pensano all’integrazione o sentirsi parte di un tutto. Ma è nelle piccole cose che riesco a percepire “l’accoglienza”di questo posto. E questa cosa del nome, io non la vedo tanto piccola.

Significherebbe che Adja riconoscerebbe la nostra amicizia, che Boss mi riconoscerebbe come cognata e amica, che la madre di Adja, Seynabou, mi accoglierebbe come una figlia. Significherebbe per me tante cose. Nel momento in cui qualcuno chiedesse in futuro a Adja, “come si chiama la bambina?” e lei rispondesse “Roberta”, Adja dovrebbe anche dire chi sono, e quale legame ci ha unite fino al punto che lei desse il nome alla bambina.

Se Adja non desse il mio nome alla pupa, non mi sentirei meno amata, questo è certo. Siamo amiche, e Boss è come un fratello per me. Seynabou è una donna forte che mi ha sempre accolta in casa dandomi da mangiare e ascoltandomi ogni volta che un giudizio più maturo avrebbe potuto aprirmi gli occhi. Alia e Ouzin, i fratelli di Adja, mi voglion bene e anche sua sorella. Babacar, il bimbo di Adja e Boss, resterebbe comunque mio nipote con cui fare discorsi intelligenti in wolof e di cui io capirei poco, forse perché troppo intelligenti. Insomma, non è che se la bimba ricevesse un altro nome perderei qualcosa. Diciamo che se la chiamassero Roberta, guadagnerei qualcosa in più, e se non la chiamassero Roberta non perderei niente. Ecco.

Venerdi sera sono corsa all’ospedale. In realtà è una clinica. La clinique Croix bleue di Castor. Chiedo al piano terra dove si trovi Adja Ndoye che ha partorito durante la notte. Mi danno il numero della stanza e salgo al primo piano. Camera 26. Che bello!!

Entro nella stanza, e Adja mi sorride subito, mi abbraccia, l’abbraccio, ci commuoviamo. E la pupa è li, nella sua culla, in mezzo alla stanza. Nata di 8 mesi respira da sola, non sta nell’incubatrice, è forte, o così sembra dato che stringe il mio dito con parecchia forza.

E’ bella. E’ incredibilmente bella. E giuro, mi somiglia.

Nella stanza c’è anche la mamma di Adja, Seynabou. Anche lei è felice per la pupa, e riceve i miei auguri e i miei baci con gioia.

C’è anche un’altra paziente. Mentre Adja è più rilassata, in forma e sorridente, lei è piuttosto sofferente. Adja mi spiega che ha subito un cesareo e che non ha cessato di lamentarsi per tutto il giorno. C’è un ragazzo insieme a lei, e una donna, che credo sia sua madre.

In un primo tempo sembrano ignorare il dolore di questa donna stesa sul letto che li guarda urlando il proprio malessere, senza poter parlare. E’ sotto l’effetto di antidolorifici, ma soffre terribilmente. Madre e ragazzo parlano in disparte credo di soldi, di pagamenti di fatture dell’ospedale e non so che altro. Il mio wolof non è ancora buono.

A un certo punto gli effetti degli anti-dolorifici credo siano improvvisamente scomparsi, perché finalmente la donna emette un urlo di disperazione. “Dama sonn”, sono stanca, “Dafa metti”, fa male. E in corsia infermieri e dottori corrono per capire cosa succede. Nel frattempo nella stanza erano entrati anche un bimbo (probabilmente suo figlio), sua sorella e un altro ragazzo.

Al piano terra c’era a chiare lettere un cartello che vietava l’accesso dei bambini alle camere dei pazienti. Non avevo capito il perché fino al momento in cui mi son trovata di fronte alla scena di questa donna urlante, che si dimenava nel letto, con i dottori e gli infermieri, tutti a tentare di tenerla ferma per evitare che si facesse male, e questo bambino impaurito e ignorante di quel che stava capitando.

Pochi minuti prima, Ndeye Sère (sorella di Adja) e Ndakh avevano portato Babacar in clinica ma non gli era stato permesso di salire a vedere la sua sorellina. Meno male dico ora. Per come conosco Babacar, nel vedere la signora urlante avrebbe cercato di tirare su il morale a tutti con qualche battuta alla Babacar, o di fare un gioco sotto il letto della signora. Babacar, 4 anni, ha una certa tendenza a sdrammatizzare quando si trova di fronte a situazioni difficili. Diciamo che non gli piace vedere la gente soffrire.

Adja al contrario, seppur dolorante, era in forma. Si, sorridente come non la vedevo da tempo. Ultimamente, ogni volta che andavo a trovarla, era sempre sofferente. O meglio, insofferente. Mi diceva “non ce la farò a arrivare a dicembre, sono stanca”. E la pupa l’ha ascoltata decidendo di venir fuori due giorni dopo il mio compleanno, un mese e 10 giorni prima della data prevista.

Adja e io abbiamo mangiato una specie di spezzatino fatto da Seynabou. Troppo buono. Mi ha ricordato gli spezzatini di mamma. Certo, se mia madre vedesse la camera in cui è stata messa Adja, e pensasse a un mio eventuale parto qui a Dakar, le verrebbe un colpo.

A mio modo di vedere, la camera è una camera decente, con tutti i confort. Ci sono pure ventilatore e TV! E un bagno da condividere in due.

L’unica cosa che preoccuperebbe anche me, è il fatto che i neonati non stanno in una stanza tutti assieme, ognuno nel suo piccolo lettino, come negli ospedali a cui “sono abituata”. Stanno in stanza con le madri. Di che mi preoccupo? Boh, penso a tutte quelle faccende dei microbi, che i bambini appena nati sono più vulnerabili ai batteri esterni, alle zanzare che comunque ci sono, penso alle “gabbie” in cui vengono messi i bambini nei nostri ospedali per “proteggerli” dal mondo.

Ecco, vedere la piccolina di Adja respirare da sola all’ottavo mese, fuori dall’incubatrice, in una stanza in cui comunque c’erano tante persone “portatrici di microbi e cose nocive”, m’ha fatto pensare a quante paure avrei e che vengono da un mondo in cui non fanno che inculcarci la paura di tutto ciò che ci circonda.

Ecco forse spiegato perché in questo paese ho sempre respirato una certa energia fuori dall’ordinario provenire dalle persone. E’ come se fin dalla nascita venissero dotate di uno scudo anti-negatività, anti-cose brutte. E questo scudo che li rende quasi invulnerabili ai miei occhi, viene rafforzato dagli insegnamenti religiosi, dalla vita in comunità e dalla legge della strada. Qui i bambini crescono in fretta e forti più che mai, con anticorpi straordinari.

Vedere la serenità di Adja nell’avere la sua bimba accanto giorno e notte, vedere che non si preoccupa affatto di tutto ciò di cui mi preoccuperei io, mi ha dato un senso di pace e di inquietudine allo stesso tempo. Adja mi dice anche che pensavano che la bimba avesse bisogno dell’incubatrice, ma che avrebbero dovuto farla arrivare da un’altra clinica e che sarebbe costata 50.000 franchi CFA al giorno. No grazie, mia figlia respirerà da sola.

No, non è preoccupata di dove viene tenuta sua figlia in ospedale, è preoccupata per come andranno le cose all’uscita dall’ospedale. Io le ho promesso che le starò vicina e che andrà tutto bene. Incha allah.

Andrà bene perché fuori ci sarà una famiglia enorme ad aspettarla. Un fratellino che fino a una settimana fa pensava che sua madre avesse ingoiato un pallone. Un padre che si occuperà di tutto perché il lavoro ha riiniziato a andar bene. Una serie di zii e zie che la terranno con loro ogni volta che Adja avrà bisogno di andare da qualche parte senza di lei. Una zia/madrina toubab che l’ha aspettata con ansia fin da quel giorno di aprile, quando Adja mi comunicò la notizia di essere incinta.

Una nonna che non vede l’ora di festeggiare il giorno del battesimo.

I battesimi sono di quegli eventi qui in Senegal pieni di sfarzo, di bei vestiti, di regali infiniti, di pecore che vengono sacrificate in onore dei nuovi nati, di sfoggio di cose che si posseggono e che non si posseggono realmente. Sono dei momenti di festa, eventi a cui non puoi e non devi mancare, perché un giorno anche tu avrai un figlio e vorrai festeggiare l’avvenimento con tutte le persone che conosci, ma anche che non conosci.

Boss dovrà comprare un montone. Non è tanto fortunato. Una settimana dopo ci sarà la Tabaski e dovrà comprarne un altro. In sti giorni lo prendiamo in giro su questo. Battesimo e Tabaski sarà una spesa enorme. Per fortuna il lavoro ha ripreso a pieno ritmo, altrimenti come potrebbe giustificare alla famiglia della moglie che non ci sono i mezzi? Qui anche se non si hanno i mezzi, si DEVONO trovare. Ne va dell’onore della visibilità di cui si deve godere in ogni caso. D’altra parte, non è mica tutti i giorni Tabaski o non è mica tutti i giorni che c’è un bambino da battezzare. L’ideale sarebbe prevedere di destinare parte del proprio sostentamento a eventi futuri certi e inaspettati. Ma quando si ha la difficoltà a trovare 1500 CFA per il pranzo o la cena per tutta la famiglia, questo senso della programmazione o progettualità, resterà un’utopia a lungo.

Qui a Dakar, quel che appare conta di più di quel che è realmente. Forse non è solo qui. Ma sarebbe tutto più semplice se le famiglie festeggiassero nei limiti delle loro possibilità e si indebitassero meno o non si indebitassero affatto per mostrare qualcosa che non si ha.

Dopo ogni festeggiamento, restano si tanti regali, tante foto, dei boubou nuovi, ma anche debiti, tanti debiti con tutti, con chi ha venduto il montone da sacrificare, con chi ha venduto tessuti, con chi ha tessuto abiti, con chi ha noleggiato sedie e tavoli, con chi ha noleggiato mezzi di trasporto, con chi ha venduto gioielli, con chi ha cantato in onore del festeggiato.

Penso al giorno in cui metterò al mondo un bambino qui a Dakar. Io i mezzi per fare il festone non ce li ho. E non ho nessuna intenzione di indebitarmi all’osso.

Come verrà visto il fatto che una toubab, dunque ricca per definizione, “non vuole” festeggiare “come si deve” la nascita del proprio bimbo?

Questa nascita ha creato in me una serie infinita di domande e di riflessioni sul mio essere donna, bianca e chissà, futura madre qui a Dakar.

C’è una tendenza tra la popolazione locale, a credere che uno straniero, un bianco, sia automaticamente dotato di un enorme conto in banca e di soldi che escono da ogni poro.

E’ vero che nel momento in cui veniamo in un paese africano in vacanza, e ripeto, in vacanza, abbiamo la tendenza a spendere e spandere, dare, regalare e abbondare di generosità. Forse pregni di sensi di colpa nel scoprire una fetta di mondo spesso “disperata”, ci sentiamo in dovere di fare qualcosa, di dare qualcosa, di dare tutto quello che ci siamo portati in valigia.

Quest’atteggiamento nasce da una certa ingenuità e anche se vogliamo dirlo, voglia di far del bene. E poi non ci rendiamo conto che da un lato la nostra vacanza sarà per noi un bellissimo ricordo, perché siamo stati generosi, le persone ci hanno sorriso e ci saranno grate a vita per quegli istanti di “ricchezza” che gli abbiamo “concesso”. Dall’altro lato facciamo un danno enorme. Diamo infinite caramelle ai bambini e non pensiamo che poi nessuna famiglia avrà mezzi sufficienti per pagare i dentisti a cui li condanniamo. Diamo soldi a chi mostra di avere bisogno, non importa se diamo tutto il badget previsto per la nostra vacanza, e non pensiamo che insegnamo a chiedere soldi ai bianchi, perché tanto ce li hanno di sicuro. Compriamo anche oggetti di cui non ce ne frega un pippo, solo per aiutare il commerciante di turno, perché noi siamo generosi e compriamo anche cose che non ci servono, e non ci rendiamo conto che lasciamo l’idea che noi abbiamo case arredate con gli oggetti più strambi.

In vacanza dovremmo essere più responsabili. Ma dato che siamo in vacanza, lasciamo a casa quella parte di noi responsabile, quella che si preoccupa delle conseguenze che le proprie azioni possono avere sul prossimo e partiamo generosi alla conquista del nuovo mondo.

E ora io pretenderei di non fare un battesimo pieno di sfarzo, quando tutti quelli che sono passati prima di me hanno lasciato credere che i mezzi ce li ho eccome.

Creiamo stereotipi nelle menti delle popolazioni che incontriamo quando siamo in vacanza, stereotipi che sono difficili da estirpare e diventano muri alti per chi poi decide di venire a vivere in un paese come il Sénégal, dove tutti normalmente ci vengono solo in vacanza.

Sulle donne toubab se ne sentono tante. Si sente dire che si tratta di vecchie signore che vengono a vivere in Africa per godersi la pensione.

Si sente dire che sono sempre donne che lavorano nelle Ong e fanno del bene al paese.

Si sente dire che vengono qui in cerca di uomini, li usano e se ne tornano a casa dopo avergli promesso mari e monti.

Si sente dire che sono generose e se fidanzate o sposate con uno del posto fanno molto per la famiglia del marito.

Si sente dire che alcune si vestono come pagliacci e vengono qui a fare le figlie dei fiori, danzando sotto le stelle al suon dei djembé dei baye fall o rastamanni di turno, sognando un mondo così, libero, dove non si fa un pippo da mattina a sera. Queste, dicono che si sposino con il rastamanno, lo portino in Europa dopodiché lui sparisce con i suoi bei documenti.

Si sente dire che le donne toubab si diano via facilmente, e che a loro piaccia molto fare all’amore con l’uomo africano.

Non ho mai sentito dire da amici senegalesi qualcosa del tipo: “le donne toubab che conosco vengono qui per lavorare, per avere una vita tranquilla, per mettersi alla prova in un paese seppur difficile ma accogliente, perché hanno visto nel nostro paese qualcosa che neanche noi vediamo più, la speranza.”

Ecco, io mi ritengo facente parte di quelle donne di cui non si sente dire in giro. Faccio molti sacrifici e sono orgogliosa dei risultati che ho raggiunto nel mantenermi al di fuori degli stereotipi esistenti. Spero un giorno che si parli di me con lo stereotipo che non è stato ancora creato. E se la bimba di Adja venisse chiamata Roberta, lo vivrei come se fosse il primo passo verso l’abbandono di buona parte degli stereotipi citati.

Ieri sono stata ancora da lei. La bambina è ogni giorno più bella. Ho fatto delle foto per mostrarle a chi non ha potuto andare a vederla appena nata. Mi somiglia davvero. Se mia madre vedesse le foto, penserebbe che sia figlia mia. E da li un uragano diretto dalla Sardegna al Senegal, colpirebbe le coste di Dakar.

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