Sénégal: Dakar - 22/09/2010 - La famiglia Sardo-Senegalese

Le presentazioni mi hanno sempre messa in agitazione. Ogni volta che incontro qualcuno a cui una persona cara vuole bene, mi sento sotto esame e scatta il terrore “non gli piacerò”.

Eppure io sono abbastanza in gamba per la media della gente che circola in giro. Sono una persona estremamente intelligente, acuta, sensibile, piena di rispetto e anche simpatica in tutto il mio sarcasmo. Nonostante questa consapevolezza, ogni incontro con qualcuno a cui qualcuno che amo è legato, vengo aggredita da ansia di piacergli e ottenerne approvazione.

Sottolineo che ciò accade solo con persone a cui le persone che amo sono legate. Dunque l’ansia non si sviluppa a ogni nuovo incontro. Un incontro qualsiasi lo vivo con maggiore serenità. Se ti piaccio bene, se non ti piaccio tanti saluti.

La famiglia di Ale era un esame importante. O meglio, era una serie di esami importanti da superare. C’era sua sorella, c’era un fratello, c’era una madre, c’era un nonno, un padre e delle cugine. Poi si sono aggiunti altri familiari ma questo venne dopo. Dunque una volta accettata dalla prima fetta della famiglia, l’ansia è diminuita con il resto.

Posso dire col senno di poi che la famiglia di Ale è una vera e propria famiglia sardo-senegalese. Tutto ruota intorno alla figura di una madre che gestisce la casa, pensa al signor nonno, educa, lavora infinite ore al giorno e si fa in mille pezzi per i suoi figli. C’è una figlia-sorella che aiuta la madre in tutto e per tutto e dipende psicologicamente da ogni parola o bisogno di questa figura. Ogni decisione della grande madre, è accettata da tutti con enorme rispetto e solo forse i figli maschi osano opporvisi, ma con acuti ragionamenti e non poche discussioni, senza mai mancarsi di rispetto.

Non ero abituata a vivere in una famiglia. Una vera famiglia intendo, dove tutti hanno più o meno voce in capitolo, dove si discute di ogni cosa, dove il dialogo è fondamentale fonte di confronto in ogni occasione, dove ognuno può dire la sua su un altro membro della famiglia, dove si cresce insieme, dove l’individuo ragiona in vista del comune accordo familiare, dove se uno ha un problema, tutta la famiglia ne viene messa a conoscenza e la privacy è ridotta al minimo.

Questo nuovo tipo di famiglia mi spaventava a morte. Ecco che divento un essere umano visibile da tutti i membri di questa famiglia. Perdo la mia trasparenza, tutti si avvicinano a questo nuovo membro, che sarei io, con curiosità, con spirito esaminatore, con desiderio di capire se Ale avesse fatto la scelta giusta. D’altra parte, chi mi aveva mai vista prima?

Facevo parte di un gruppo di fans del suo gruppo che nell’estate 1993 suonava al campeggio di Cala Gonone. Il nome del gruppo era Mucchio selvaggio. Di selvaggio c’ero io, che gridavo a 1000Watt a ogni pezzo. E i miei cugini. I miei cugini sono un pezzo fondamentale della mia storia. Mi hanno aiutata a crescere in un momento in cui la mia famiglia d’origine s’era spenta, nel senso che non mi dava più nessuno stimolo. Per tutta l’estate del 1993 io, Simona e Alessia non ci siamo perse un concerto del Mucchio Selvaggio. Avevamo l’abitudine di fare tappa al Gufo, di bere due birre, e di correre fino al campeggio per le 21.00, ora in cui il concerto doveva avere inizio.

Arrivavamo più o meno puntuali. E nella piazzetta davanti al ristorante del campeggio, c’erano già tanti adolescenti come noi pronti a cantare e emozionarsi per questo fanta-evento che era l’unico tipo di animazione che avevamo a Cala Gonone in quegli anni.

Io sono miope da tanti anni. Credo di ricordare di aver acquistato il mio primo paio di occhiali quando ero in seconda media. Nel 1993 non portavo lenti a contatto e non andavo in giro con gli occhiali perché a me gli occhiali fanno sudare. Per cui andavo a sti concerti, gridavo come una pazza, ma non vedevo minimamente le facce dei membri del Mucchio Selvaggio.

L’unico che avrei potuto riconoscere, era Antonello Caciotto, il cantante, perché mi mettevo proprio di fronte a lui, o al massimo un po’ sulla sinistra. Chi stava dietro, per me era solo una serie di colori. E Ale era spesso una camicia a scacchi bianco-nera, o quadretti rosso-verdescuro. Oppure una maglietta nera con le maniche stracciate. Ma la sua faccia, non riuscivo a focalizzarla.

Bene, un’estate magnifica conclusasi con i ringraziamenti del Gruppo ai miei 1000watt. E è stato il giorno del ringraziamento che ho finalmente dato un volto a tutti gli altri.

Non vidi più nessuno del Mucchio fino a pasqua del 1994 e fu li che io e Ale cominciammo a scriverci. Lui abitava a Milano. Io ero una di quelle sarde che non era mai uscita dalla Sardegna. Non avevo neanche mai visto un porto da cui partono le navi per il “continente” né un aeroporto. Per me il mondo finiva con i confini sardi. Oltre la Sardegna non c’era niente.

La Sardegna è il posto in cui sono cresciuta, è la mia casa, è la mia terra, è la mia incubatrice, è il mio cordone ombelicale e per tutti i miei primi 20 anni, non ho mai pensato di lasciarla. Finché non mi son resa conto che tutto questo vivere nello stesso modo da una vita, senza avere delle vere e proprie speranze o progetti per il mio futuro, derivava proprio dal fatto che non avessi mai messo piede fuori dalla Sardegna.

Una volta ottenuto il diploma, mia madre avrebbe voluto che facessi la scuola per assistenti sociali, di Nuoro. Non perché avesse visto in me uno spirito da crocerossina e una tendenza innata a aiutare il prossimo, cosa che chiunque noterebbe in me, ma perché era l’unica scelta possibile visto che a Nuoro o facevi questo o facevi Scienze forestali. Che ci sarei andata a fare nelle foreste? Diceva mia madre.

Mi ero informata ma sinceramente non volevo incastrarmi per 3 anni in una scelta solo perché fosse l’unica scelta possibile. Sentivo che Nuoro mi stava stretta, ma avevo il terrore di abbandonarla. Sentivo che non volevo andare a fare la cameriera nei ristoranti nella stagione estiva, e basta. Mia sorella l’ha fatto e tanto di cappello, ma non mi è mai piaciuto quel che è diventata in seguito a certi episodi verificatesi negli alloggi messi a disposizione del personale. Insomma, io non volevo accontentarmi di quel che la Sardegna, che nel mio caso si riduceva a Nuoro e Cala Gonone, mi offriva. L’idea di fare la barista, baby-sitter, cameriera a vita, non mi allettava affatto. Era insito in me un tale pessimismo che mi dicevo che anche se avessi terminato la scuola di assistenti sociali, non avrei mai trovato un lavoro dopo 3 anni, pertinente ai miei studi, ma sarei stata costretta a accettare di fare altre cose.

Mi son detta che se avessi fatto l’università, avrei voluto farla lontana dalla Sardegna, per mettermi alla prova altrove, e confrontarmi con altri schemi mentali. Crescere in Sardegna è qualcosa di meraviglioso che nessuno può capire se non è cresciuto li. Un sardo cresce con la consapevolezza del valore da attribuire a ogni cosa, cresce con i piedi per terra, una terra in cui tutti sognano di avere radici. Ecco, radici. I nostri piedi sono ben radicati a terra. E’ per questo che per noi sardi è così difficile allontanarci dalla Sardegna senza soffrirne.

Nel momento in cui prendiamo una nave o un aereo per decollare altrove, si verifica in noi uno strappo talmente doloroso che ogni partenza è una fontana di lacrime.

La Sardegna è un luogo dove le relazioni tra le persone si nutrono di giorno in giorno di vita, di racconti, di esperienze, di incontri, di escursioni, di gite, di passeggiate, di citofoni che suonano all’improvviso perché sei sparito e ti vogliono vedere, di telefonate a tutte le ore, di privacy che non c’è perché si vive in famiglia e le amicizie che nascono in Sardegna sono vere e hanno radici solide.

Nonostante amassi la mia terra tantissimo, mi sentivo soffocare e dovevo trovare il modo di partire. Partire, per un sardo significa sempre anche tornare, perché le radici chiamano e è straziante.

Incontrare Ale fu il mio trampolino di lancio. E così fu la prima volta che mi resi conto quanto potente possa essere la forza dell’amore. Per amore si trova il coraggio di superare i propri limiti e il proprio egocentrismo per abbandonare un IO e diventare un NOI, per abbandonare un luogo che non sembra più essere fonte di stimoli e partire alla ricerca di nuovi.

L’avventura è iniziata attraverso l’incontro con la sua famiglia. Una famiglia unita e pregna d’amore. Una famiglia dove tutti sono amati da tutti. E tu, estranea, devi riuscire a farti amare pure tu. Ci tenevo tantissimo a entrare a far parte di questa famiglia. Me ne sentivo respinta, ma solo perché era un modo di vivere in famiglia completamente distante dal modo in cui ero abituata.

Il fatto che tutti partecipassero a qualsiasi tipo di discussione, mi disorientava, perché io ero talmente abituata alla mia privacy, a discutere delle mie cose solamente con l’interessato che sentivo minata la mia individualità.

Ma ero innamorata e pronta a provare questa nuova esperienza. Se loro erano così felici, probabilmente lo sarei stata pure io. Non sarei certo morta di troppo amore o troppo interesse per quel che mi capitava.

Il primo a accettare il mio ingresso in questo nucleo familiare, fu Paolo. Mi ricordo ancora il giorno esatto. C’era un falò in spiaggia. Io e Ale non eravamo ancora fidanzati, ma eravamo sulla buona strada. Paolo aveva 14 anni e aveva bevuto qualche bicchiere di vino di troppo. Di ritorno dal falò abbiamo corso insieme lungo la spiaggia. Questa corsa per me è stato il rito di accettazione, perché quella sera disse a Ale “Però, simpatica quella tua amica”!

Avevo già avuto un contatto con le cugine, per cui si, loro mi avevano già apprezzata prima ancora che conoscessi Ale. Quella corsa con Paolo, non sapevo certo che sarebbe stata l’inizio di una lunga serie di riti di iniziazione.

A fine estate ci fu la sfilata del Redentore, a Nuoro. Era il 28 agosto 1994. Io sono andata a Nuoro perché dovevo accompagnare il gruppo di Muravera per tutto il percorso della sfilata. E Ale venne a vedermi sfilare. La sera, di ritorno a Cala Gonone, sancimmo l’inizio della nostra storia, con una magia di pochi secondi avvenuta ai cessi pubblici, davanti all’hotel Bue marino.

In pochi giorni mi ritrovai catapultata in un mondo nuovo.

Incontro sua madre e incontro il nonno. L’incontro col nonno fu parecchio tenero. Mi ricordo che eravamo in camera di Juana e lui entrò con le sue pantofole che strisciavano sulla moquette, mi strinse la mano e disse “piacere”. E uscì strisciando dopo aver detto “con permesso!”.

Chi disse “con permesso”? Fu l’inizio del chi disse. Ogni membro della famiglia di Ale è oggetto di osservazione dagli altri membri, e ogni volta che dici o fai qualcosa di bizzarro, entri nella storia del “chi disse” o “chi fece?”. Ogni cosa che succede dentro quella casa è ricca di spirito d’amore e di unione. Anche quando i ragazzi si oppongono alla signora madre, si sente che con amore lei comprende e lascia che vivano le loro esperienze.

L’incontro con sua madre fu il vero esame. Una donna così intelligente, colta, interessante, simpatica e anche buffa alle volte, mi faceva paura. Il terrore era di non essere alla sua altezza. Io in fondo ero solo una uscita da ragioneria, che aveva deciso di non continuare gli studi perché a Nuoro non c’era scelta e non aveva nessuna intenzione di andare a Cagliari o Sassari perché era convinta che sarebbero state delle Nuoro un po’ più grandi, ma sempre Nuoro.

Io non potevo piacerle, mi dicevo. Non potevo entrare in questo nucleo familiare perché non sarei mai piaciuta alla signora madre. Questo essere straordinario, quasi fuori dall’umano, era così irraggiungibile per me. Eppure, con il tempo, con i mesi e con gli anni, in qualche modo, diventai sua figlia. E’ così che mi ha fatta sentire. Il fatto che suo figlio mi amasse, la portava di riflesso a amarmi e farmi sentire parte di quel tutto che tanto mi sembrava lontano dal mio modo di vivere.

Per 7 anni ho avuto una splendida famiglia sarda, numerosa, in cui ogni membro aveva la sua buona parte di “chi disse”, e ognuno poteva fare dell’ironia sull’altro perché è così che si fa nelle famiglie unite, in cui ognuno aveva il suo posto ben definito come individuo ma anche come parte del tutto.

Un altro personaggio difficile, fu il signor zio Peppe. Si, non dimenticherò quanto sudore versato a ogni incontro. Questo signor zio ha la tendenza a mettere in imbarazzo chiunque, e se non arrivi a capire che è un gioco e non gli dai il giusto peso, potresti soffrire molto. E io ho sofferto molto per un periodo, perché non dimentichiamoci che fondamentalmente io sono timida, e anche insicura, finché Ale e tutta la famiglia mi hanno insegnato a dare il giusto peso, a osservare meglio e capire che dietro l’orso c’era un orsetto. E anche il signor zio mi accettò.

La madre di Ale fu la prima persona nella mia vita a farmi notare quanto io sia un po’ rigida. Rigida nel senso che ho la mia bella serie di principi sui quali difficilmente lascio correre. Ai tempi lo ero molto più di quanto non lo sia adesso, ma anche oggi, anche qui a Dakar, mi si dice che sono troppo severa, con me stessa e dunque anche con gli altri.

Questa critica mi aiutò moltissimo. Imparai a osservarmi meglio e appresi che spesso avrei potuto lasciar correre per rendermi la vita meno difficile. La mia tendenza a vivisezionare ogni cosa che succede, non mi ha mai abbandonata, ma ho imparato a osservare con maggiore obbiettività e con più leggerezza. Credo che la famiglia di Ale sia stata per me una scuola fantastica.

La scelta di partire per Milano, venne grazie a questa famiglia che mi ha riempita di nuovi stimoli e voglia di conoscere. E se non fosse stato per loro, non avrei mai lasciato Nuoro. E chissà, forse avrei realizzato i sogni di mia madre, sarei diventata un’assistente sociale o mi sarei sposata con uno che lavora in banca.

Tutti i grandi sogni si realizzano quando c’è qualcuno che ti da delle buone ragioni per inseguirli e fare del tuo meglio affinché si realizzano. Da soli non si può inseguire i sogni. Abbiamo bisogno degli altri perché tante cose funzionino come si vorrebbe. Dalla famiglia di Ale ho imparato a smettere di ragionare per me stessa e ho iniziato a ragionare per il gruppo. Col tempo proprio smesso di pensare solo a me stessa e mi sono dedicata agli altri, diventando un’assistente sociale senza diploma. Mi sono resa conto che sono felice se chi mi sta intorno è felice. E se io posso fare anche un piccolo gesto per contribuire alla gioia di chi amo, ne faccio due di piccoli gesti. Forse non è una giusta filosofia di vita, ma se mi da felicità, io continuo a coltivarla. Alla fine il risultato è comunque che penso a me stessa.

Vivere a Milano per 15 anni mi ha ritrasformata in una persona che cominciava a richiudersi in se stessa, in un vivere per se stessa, e a dimenticare il valore della famiglia e delle altre persone. Per quanto a Milano avessi un’enorme quantità di persone che amavo e che mi amavano, negli ultimi anni ho ricominciato a sentire quella sensazione di soffocamento, data dalle cose che si ripetevano tutte uguali, tutte nello stesso modo, tutte con quella cadenza precisa e fastidiosa, senza nessuna novità, senza più stimoli, senza più ragioni di gioia.

Nel 2006 partii per il Kenya, così, per caso, per una serie di coincidenze sfavorevoli che vollero farmi partire da sola. E in Kenya ho ritrovato la famiglia di Ale. Posso dire che ho riaperto gli occhi. Ogni viaggio in Kenya che è seguito, è stato per me una terapia per riprendermi dall’intorpidimento milanese. Per 6 viaggi in due anni e mezzo, mi sono curata. E ho capito che Milano non era più la mia città. Forse avrei potuto ritornare in Sardegna. Ma in realtà avevo bisogno di rimettermi ancora alla prova, da zero, in un’altra parte del pianeta.

Cercai lavoro in Kenya, inutilmente. Finché in ogni caso, mi resi conto che il Kenya sarebbe stato un paese troppo pericoloso per una donna bianca che avesse deciso di trasferirvisi da sola.

E così sono partita per il Senegal. A dicembre 2008 presi il mio primo volo per Dakar. La cosa che mi stupì all’aeroporto fu l’enorme quantità di senegalesi che doveva prendere il mio stesso aereo. Fu li che mi resi conto che anche i senegalesi amano il loro paese come io amo la Sardegna, e hanno bisogno di tornarci, anche se è solo per una vacanza, perché le loro radici li richiamano a casa, almeno una volta l’anno.

Ma come me con la Sardegna, i senegalesi non vedono nel loro paese nessuna possibilità d’avere un buon futuro, un buon lavoro, un buon salario. Il Senegal diventa per gli emigrati in Europa, un posto in cui tornare ogni tanto, il simbolo della famiglia che è rimasta a casa a aspettarli, il posto dove sono cresciuti e dove non possono tornare se non hanno modo di garantire il futuro a tutti quelli che sono rimasti e che contano su di loro.

Io a volte ci penso a tornare a vivere in Sardegna. Ma cosa potrei fare li? Ho 35 anni, e a 35 anni non trovi più un lavoro, anche se hai fatto tanta esperienza.

E troverei marito? Chi se la piglia una sarda di 35 anni che non ha neanche vissuto in Sardegna e che non parla il sardo? Potrei ricominciare a credere che un sardo può darmi la felicità che cerco? Smetterei di pensare che è rimasto li ancorato agli scogli, come i Malavoglia, senza mai cercare stimoli altrove? Ma che ne so io dei sardi di oggi?

Qui in Senegal ho trovato un’altra famiglia. Una famiglia in cui tutti sono sempre presenti e i momenti di intimità non esistono. Una famiglia in cui tutti sono al corrente di quel che succede a tutti. Dove tutti discutono dei problemi degli altri, ma dove evitano per bene di parlare dei propri. Dove la condivisione riguarda tutto e è obbligatoria per tutti. Dove la figura della grande madre è sostituita dalla grande sorella. Ma facciamo bene attenzione, è sempre una donna. La figura che più temo è sempre una donna. Questo perché resto convinta del fatto che tutte le grandi famiglie si basano su quel che una grande donna ha investito su di esse.

La famiglia di Salif è una famiglia numerosa. Sua madre ha avuto figli con 3 mariti diversi. E i padri di questi figli hanno avuto altri figli con mogli diverse. Per cui fratelli e sorelle acquisiti e non, abbondano. La famiglia senegalese mi ricorda moltissimo la famiglia sarda, con la sola differenza che il livello di profondità delle relazioni che si instaurano tra i membri della famiglia sarda è nettamente superiore al livello di profondità delle relazioni che si instaurano tra i membri della famiglia senegalese. Qui in Senegal parlare di profondità delle relazioni umane è possibile solo in alcune rare eccezioni. Posso dire che le relazioni che puoi avere qui sono numerosissime, tutti diventano qualcuno che conosci, che ti conosce, ma solo a un livello superficiale.

Posso dire che io cerco di farmi conoscere completamente. Non ho paura del giudizio degli altri. Il mio essere così sincera è una forza. Non ho paura del giudizio di nessuno perché la mia condotta, modestie a parte, è irreprensibile. E anche se commettessi degli sbagli, non ho paura di ammetterlo. Tutt’altro, ammetto e chiedo anche come evitare di farne ancora.

Io non mi nascondo. E’ questa la mia forza. Io non scappo. Io non fingo di non aver fatto niente di male se l’ho fatto. Io non faccio a nessuno, consciamente, quel che non vorrei venisse fatto a me. Per cui non ho paura del giudizio degli altri e mi apro totalmente.

Ma qui tutti temono di raccontarsi, di dire come stanno realmente le cose, come vivono le loro giornate, per paura del pettegolezzo, per paura del giudizio di chiunque, per paura che Dio non approverebbe, per paura che se non si segue quello che fanno gli altri, si verrebbe esclusi dalla comunità. La fiducia tra le persone qui manca. E si respira un profondo senso di solitudine benché tutti vivano in comunità, e tutti condividano ogni istante della giornata con qualcuno.

Qui non esiste che una persona decida di passare la giornata chiusa in camera a leggere un libro, a meno che in camera non ci siano anche altre persone. Qui si ha paura della solitudine, di restare soli con se stessi. Si ha forse paura che gli altri vadano avanti senza di te. E allora non si perde occasione di stare insieme a non far niente, ma insieme, a bere il thé mille volte al giorno, ma non da soli.

Da soli non si fa niente. Anche se la persona con cui fai qualcosa non ti conosce a fondo, l’importante è non fare quel qualcosa da solo. Se guardi un film in camera, non lo guardi da solo, se fumi una sigaretta, non la fumi da solo, se ti fai una canna, non te la fai da solo, se devi fare qualsiasi cosa che potresti fare da solo, cerchi sempre compagnia.

Mi chiedo se questo bisogno di una compagnia, qualunque essa sia, nasconda semplicemente l’incapacità di sopportare l’impotenza di fronte a tanta ingiustizia propinata da un governo incapace di soddisfare le esigenze dei propri cittadini, l’incapacità di trovare stimoli che sviluppino la tua individualità rispetto al tuo prossimo, l’incapacità di fare qualcosa per te stesso senza per forza mostrare agli altri il risultato di quel che fai. Perché c’è questo bisogno innato di far vedere a qualcuno che non sei li a non fare niente? Perché non approfitti di tutti questi momenti di condivisione per conoscere più a fondo chi ti sta intorno?

Sono così tanti i momenti di aggregazione qui a Dakar. Stare da soli non esiste. Anche se sei al cellulare, sei obbligato a salutare tutti quelli che incontri per strada e chiedergli come sta e rispondergli se ti chiede come sta, e quello che è al telefono con te, deve aspettare. Non importa quanto.

Eppure si respira solitudine a ogni angolo. Quando passi col car rapide, osservi le facce di tutti quelli che sono fuori dal loro magazzino, seduti nell’attesa che qualcuno si fermi a chiedere informazioni sulla loro mercanzia, o a chiedere un’informazione qualsiasi, e leggi in quegli occhi stanchezza per una situazione che non cambia mai, rassegnazione per le ore in cui nessuno passerà, tristezza per non avere qualcuno con cui condividere pensieri tristi. Già, perché qui se sei triste nessuno può accettarlo.

Come puoi permetterti di essere triste e farcelo sapere, se noi siamo su una piroga che è messa peggio della tua ma non te lo diciamo?

Sarebbe tutto più semplice se la condivisione fosse anche condivisione di dolori, di gioie, progetti, di sogni infranti e da realizzare, e di speranze.

Ecco la differenza tra la famiglia di Ale e la famiglia di Salif. I sardi hanno i piedi per terra, ma marciano a testa alta con il cuore tra le mani. I senegalesi marciano a testa alta, con i piedi tra le nuvole, nascondendo il cuore dove nessuno può trovarlo.

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