Sénégal: Dakar - 04/08/2010 - A Dakar il lavoro è donna

A Dakar il lavoro è donna. E’ un’idea che mi sto facendo giorno dopo giorno.

Ma prima è d’obbligo una premessa. Il mio quartiere, ma credo come tanti altri quartieri della città, pullula di persone che non lavorano, e che da mattina a sera non fanno un emerito pippo. Alcuni fanno parte della categoria di quelli rassegnati, che non cercano più lavoro, tanto non ce n’è; altri fanno parte di quelli che temporaneamente si ritrovano a non fare un pippo, che di solito non cercano ma che a volte hanno la fortuna di essere ingaggiati per qualche lavoretto della durata di qualche giorno o se fortunati qualche settimana; altri fanno parte di quelli che continuano a cercare da qualsiasi parte, e se li ho trovati a non fare un pippo è solo un caso perché di solito non sono li.

Altra premessa da fare è che la popolazione dakaroise è formata più da donne che da uomini. Ragione per la quale questa diventa un’ottima ragione quando gli uomini si ergono a paladini della giustizia e ti dicono che per loro è un dovere sposare più donne, per salvarle dalla solitudine. Ma non è di questo che voglio parlare.

Nonostante qui ci siano più donne che uomini, ho constatato che tra le fila di quelli che si ritrovano a non fare un pippo in prima linea ci sono i maschi. Ora, aggiungo che ci sono uomini che lavorano e donne che lavorano, ma ecco che i miei occhi vedono più spesso donne impegnarsi in qualsiasi attività e più uomini seduti nell’attesa infinita che qualcosa arrivi anche per loro.

Al mattino salgo sul car rapide, e la percentuale di donne dirette al lavoro è ben più alta di quella degli uomini presenti. Come faccio a sapere che vanno a lavoro? Si tratta di solito donne che salgono sul car rapide con bacinelle piene di ortaggi, di frutta, di merce da vendere nei mercati. Spesso sono donne vestite a puntino per l’ufficio, e spesso sono delle bonnes che accompagnano i bambini a scuola, per poi cominciare il tour del mercato per preparare i pasti nelle case in cui lavorano.
Sul clandò che prendo da Patte d’Oie, idem. Di solito siamo almeno 3 donne e un uomo, più il taxista, che è sempre un uomo, dunque conducendo il clandò fa parte di quelli che lavorano. Ma la più parte delle volte, siamo 4 donne e il taxista. E sono sempre donne dirette al lavoro, perché a quell’ora del mattino dove potrebbero mai andare?

Il mio diretto superiore è un uomo. Ma la responsabilità del nostro reparto, è affidata a una donna.
Seynabou lavora sodo, è sposata e ha tre figlie. Viene in ufficio prestissimo la mattina, e fa parte degli ultimi che abbandonano la baracca. Al mattino mette le bambine sul bus per la scuola e le riabbraccia a sera, per godersi le ultime ore della giornata con loro.

Le offerte all’Export le facciamo io e Khady. Due donne. Siamo solo in due e siamo donne. Khady è appena andata in maternità. Aveva già due gemelle, e ora arriverà il terzo figlio. Madre lavoratrice, come tantissime donne qui a Dakar. Come nel mondo, lo so. Ma questo pezzo è per smentire tutti quelli che sostengono che le donne in Senegal non lavorano e non cercano di guadagnarsi la vita con le proprie forze.

Non ho mai visto nessuna mia collega, avuta fino a oggi, lavorare ai ritmi e con l’efficienza di Khady. Io stessa sono arrivata a Dakar con la convinzione che qui i ritmi lavorativi sarebbero stati meno pressanti e che mi sarei potuta permettere di grattarmi un pochino. E invece col pippo. Quando ho visto il modo in cui Khady lavora, sono rimasta fortemente impressionata. Veloce, abile, precisa e con una memoria di ferro su tutti i dettagli da mettere nelle offerte. Mi sono sentita a un livello nettamente inferiore per capacità e conoscenze. Insomma, Khady mi ha insegnato il lavoro che svolgo e l’ha fatto in maniera impeccabile.

Khady ogni giorno si sveglia all’alba per preparare le bimbe per la scuola, le mette in macchina e via al lavoro. In ufficio non perde occasione per chiamare casa e informarsi se le bambine stanno bene, se hanno mangiato, se hanno bisogno di qualcosa. Mamma e lavoratrice.

Ndeye Ouly è la nipote di Salif. Lavora ogni giorno dalle 8.30 del mattino fino a sera. Spesso arriva a fin verso le 20.00, senza sosta. Ha un contratto da stagista non so da quanti anni. Qui funziona così. Le aziende evitano di assumerti perché uno stipendio da assunti è più alto. Ma va?
E pur di non restare a casa senza fare un pippo, Ndeye Ouly accetta questa situazione con la speranza che un giorno il suo contratto da stagista si trasformi in un contratto vero e proprio. Guadagna una miseria. Le danno un salario che le consente di pagare il trasporto e qualche cosa in più ogni tanto. Ma a fine mese si ritrova indebitata come tutti gli altri, stagisti o non stagisti. A Dakar anche quelli che hanno un contratto di lavoro regolare, hanno uno stipendio da fame.

Ndeye Ouly fa una vita casa lavoro, lavoro casa. E sono certa che non sia proprio felice, ma è sicuramente più felice di quanto non lo sarebbe se restasse a casa in attesa di qualcosa di meglio.
Quel poco che riesce a non spendere nel trasporto, sono certa lo dia a sua madre.

Chiara. Chiara è una donna italiana immigrata a Dakar con pochi, anzi pochissimi mezzi e ha deciso di aprire una boutique a Sandaga. Ha capito che qui tutto può diventare qualcosa, se si ha la voglia di provarci, e lei ci ha provato. Ha imparato a prendere i mezzi pubblici locali per evitare di spendere salassi in taxi e ogni giorno si tuffa nella mischia. Parselles-Sandaga diventa un percorso pieno di speranze. Non è detto che tutti i giorni avrà dei clienti, ma lei non si scoraggia e sa che quel che arriverà, anche se poco, sarà qualcosa. Qui qualcosa è sempre tanto, non è mai veramente poco.

Non è facile essere immigrati, da nessuna parte nel mondo. Ma essere una donna bianca immigrata a Dakar è qualcosa che ha dell’estremo, inteso come coraggioso. Aprire una Boutique a Sandaga, sarebbe un’impresa per chiunque. Più che nell’aprirla, la difficoltà sta nel gestirla. Bisogna avere i contatti giusti, il carattere giusto, la voglia di partager giusta. E io non riesco a immaginarmi nessuno dei miei amici maschi italiani, ma neanche donne, a lavorare a Sandaga come fa Chiara. Ogni giorno si scontra con sguardi spesso solo curiosi, spesso sorpresi, spesso giudicanti di senegalesi che non capiscono che bisogno abbia una bianca di guadagnare dei soldi, e soprattutto di guadagnarli vendendo a prezzi così bassi al mercato di Sandaga.

Jeanne. Jeanne l’ho incontrata per la prima volta il 4 dicembre 2009, quando sono stata aggredita sotto casa mia. Dopo l’aggressione decisi di andare subito al lavoro e Eto mi ha accompagnata fino a che non abbiamo incontrato Jeanne, che abita dietro casa mia. Jeanne faceva la baby sitter per una famiglia che abita in zona fiera. Ogni mattina alle 6.15 io e Jeanne percorrevamo al buio la strada che ci avrebbe portate fino al car rapide. Due donne in strade buie e deserte che sfidavano il rischio di aggressori sempre in agguato. La donna per cui lavorava Jeanne, non era mai in casa perché lavorava anche lei fino a tardi. Al rientro dalla giornata lavorativa, Jeanne le riconsegnava i suoi bambini e finalmente tornava a casa, esausta. Jeanne ha dovuto lasciare quel lavoro per problemi che nascono spesso quando la baby sitter è carina e il marito torna a casa prima della moglie. Jeanne non è scesa a compromessi, e ha perso il lavoro.

Adja. Adja è madre, moglie, figlia e commerciante alla senegalese. Adja ogni giorno si occupa di Babacar, di suo marito, della numerosa famiglia in casa di sua madre e quando può, vende delle merci che un fratello le spedisce da Dubai. Occuparsi di una casa è un lavoro, nessuno può negare questo, sennò non esisterebbero le bonnes. Occuparsi di un bambino, è un lavoro. Se non fosse così, non esisterebbero le baby sitter. Occuparsi di una madre, è un lavoro. Se non fosse così, non esisterebbero le badanti. Dunque Adja lavora per tutti e non guadagna un pippo. Anche quel che vende, spesso non le da guadagno perché spesso è costretta a vendere a credito perché i suoi clienti affezionati spesso non possono pagare subito. Adja si fa in mille pezzi per poter fare al meglio ogni piccola parte dei suoi 4 lavori. E a fine giornata è stanca morta.

Daba. Daba è la bonne di casa di Salif. Ormai la si considera come un membro effettivo della famiglia, ma è pur sempre la bonne, per cui ogni giorno, per tutto il giorno non può permettersi di riposare troppo. Ammetto che rispetto a altre bonnes che conosco, lei occupa un ruolo un po’ privilegiato, perché spesso e volentieri prende una pausa. Essendo considerata come un membro della famiglia, spesso la famiglia non la paga. Se i soldi ci sono, allora le viene dato qualcosa, sennò si deve accontentare di vitto e alloggio. Nonostante questo, lei non molla. Ama la famiglia e non se ne andrebbe mai per nulla al mondo. E’ Daba che si è occupata di Maguette da quando è nata fino a oggi. E’ Daba che le ha insegnato a cucinare e a occuparsi della casa. E’ stata la sua seconda mamma.

Ogni franco CFA che Daba riesce a mettere via, cosa normalmente impossibile qui a Dakar, lo spedisce a sua madre al villaggio. Un tempo al villaggio c’era il suo bambino di cui occuparsi. Il bimbo ha avuto un terribile incidente. Morso da un serpente è morto il 30 gennaio 2010. Daba avrebbe potuto decidere di smettere di lavorare e di tornare al villaggio per occuparsi di sua madre. Invece ha deciso di restare a Dakar e di continuare a accettare quei pochi soldi che a volte arrivano e a volte no.

Ora, non tutte le donne che conosco qui a Dakar hanno questa gran voglia di lavorare a ogni costo, anche a basso costo. E non tutti gli uomini del mio quartiere stanno a casa a non fare un pippo. Fatto sta che c’è una differenza. Le donne che stanno a casa, vengono comunque sommerse dei lavori domestici, dunque per loro è raro trovarsi a non fare un pippo.

Mentre per gli uomini che stanno a casa, il pippo si trasforma in bombola per il gas, bicchierini per l’ataya (thé senegalese), quattro sgabelli e altri amici con cui aspettare il nulla, fino al terzo ataya, ossia per almeno tutto un pomeriggio.

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