Sénégal: "ça ira". Devo imparare l'ottimismo per osmosi

Agosto 2009

Ogni volta che parto per il Senegal è sicuro al 100% che qualche senegalese italiano mi da l’incarico di consegnare qualcosa a un membro della propria famiglia.
E così il 4 agosto atterro a Dakar e dopo qualche ora ricevo la telefonata di Pape Same Sarr. E’ il fratello di Ibrahim. Per lui ho portato un paio di scarpe per giocare a calcio e una macchina fotografica.

Le scarpe per il football sono un articolo che va a ruba a Dakar. Ma credo sia così in tutto il Senegal, e se proprio vogliamo esagerare, in tutta l’Africa. Il pallone è lo strumento di aggregazione più amato. Se hai un pallone, hai anche un sacco di amici, questo è sicuro. E se le tue scarpette arrivano dall’Italia, sei un gran figo e devi fare in modo di procurarle anche a tutti i tuoi amici.

A Dakar sta per iniziare il torneo di calcio tra quartieri, e così è fondamentale avere delle scarpette all’altezza del torneo. E Ibrahim lo sapeva quando ha deciso di usarmi come corriere per spedirle a suo nipote, il figlio di Pape.

La telefonata con Pape è brevissima. Mi dice che il giorno dopo verrà lui a HLM4 a prendere le scarpe, che è giusto così, che io non mi devo muovere e che sa che probabilmente sono stanca per il viaggio. Effettivamente è così. Sono a pezzi, ma felice.

Quando Pape arriva con il suo motorello, tutti gli occhi dei ragazzi del campo di calcio sono puntati sul mio sacchetto. Si vede spuntare un laccio di scarpe. E ecco Maudi, un nano di 8 anni, che avevo conosciuto sull’isola di Gorée il 30 maggio, si avvicina, mi toglie il sacchetto dalle mani e tira fuori il tesoro. Un paio di scarpette da calcio nuove di zecca.
Se avessero potuto, i ragazzi di HLM4 avrebbero fatto una ola.

Invitiamo Pape a seguirci fino a casa. Chiacchieriamo come se il solo fatto di conoscere Ibrahim mi rendesse membro della loro famiglia. Pape non fa che ringraziarmi e incoraggiarmi per tutto quello che ho in mente di fare nei giorni a seguire.

Già, cosa ho in mente di fare nei giorni a seguire? E perché ogni volta che lo racconto a un senegalese, mi risponde che “ça ira”, e se lo racconto a mia madre, lei mi dice “è l’errore più grande della tua vita”?

Se i sogni dei ragazzi del campetto portano fino a un paio di scarpette da calcio, i miei sono arrivati prima dalla Sardegna a Milano, e ora da Milano voglio trasferirli in Senegal. Ecco cosa voglio fare nei giorni a seguire. Voglio trovare un posto per me a Dakar. Il mio posto.

Perché anche per me risulta così difficile credere che “ça ira”?

Pape è ottimista. Salif è ottimista. Ousmane, il migliore amico di Ibrahim, è ottimista. Maseck, è ottimista. Daour è ottimista. Dolce, il fratello di Salif che è morto a luglio, era ottimista. E allora lo devo essere anche io. Devo imparare l’ottimismo per osmosi.

C’è una cosa che rende queste persone ottimiste. Credono. Si, credono in Dio con una tale forza e intensità, che niente potrebbe convincerli che Dio non mi aiuterà. Da quando ho cominciato a raccontare il mio sogno di trasferirmi a Dakar, un’infinità di preghiere si sono sollevate per me dalle case di Dakar. Io non sono musulmana, non so neanche se sono cristiana. Ma il fatto che ci sia una tale concentrazione di persone impegnata a pregare per me, mi consola, mi da coraggio e forza, e mi fa pensare che forse “ça ira”.

Dico a Pape che ho una paura fottuta, che sono perfettamente consapevole di infinite difficoltà che incontrerò, gliele espongo, gli dico che spesso ho voglia di piangere a Dakar, che la solitudine diventa veramente violenta quando mi scontro con la mia ignoranza della lingua. Pape sorride e mi dice che quando andrò a vivere li, tutto diventerà più semplice di quanto io pensi. Grazie Pape.

Riaccompagnamo Pape al suo motorello e gli occhi di David e degli altri “footballeurs du coin” sono su di me. All’improvviso mi rendo conto di essere diventata per loro la Toubab spacciatrice di scarpette da calcio. Infatti quando Pape va via, dopo un abbraccio stretto e infiniti Alhamdulillahi, David si avvicina a Salif, gli parla in wolof e la sola cosa che capisco è che lo sta supplicando. E nel contempo mi sorride, come se potessi capire cosa sta chiedendo.

Dopodiché mentre rientriamo verso casa, Salif mi spiega che David gli ha chiesto di vendergli un paio di scarpette da calcio come quelle che ho portato a Pape. Da quel giorno, ogni volta che incontro David, le parole che mi rivolge sono “Miss, je t’en prie, vend-moi des chaussures!”.

Ed ecco che parte un gioco. Il gioco che mi permette di inserirmi in quella compagnia di quartiere così allegra e unita. Il gioco è continuare a fare credere a David che io sia arrivata a Dakar con un paio di valigie piene di scarpette da calcio e che il solo a poter decidere la sorte di quelle scarpe, è Salif. Moussa, Sarr, Pierre e Salif mi chiedono di reggere il gioco. E così ogni volta che David si avvicina alla compagnia, tutti parlano di bellissime scarpette da calcio che hanno visto a casa di Salif, come se fossero il tesoro più prezioso mai arrivato a HLM4.

E’ una crudeltà. Vedere gli occhi supplicanti di David crea in me enormi sensi di colpa. Dunque da un lato comincio a sentirmi parte di qualcosa, dall’altro mi si ritaglia addosso il potere di donare sofferenza. Sofferenza che viene dalla frustrazione di non possedere qualcosa che tanti hanno. Credo che questo riassuma quello che è un toubab a Dakar. E’ qualcuno che ha la fortuna di essere nato nella parte “giusta e fortunata” del mondo, e che è in possesso di tutto quello che quelli della parte “meno fortunata” non hanno.

Dico a Salif che questo gioco non mi piace. Ma lui mi dice che non è grave scherzare e prendere in giro David. Tutti si divertono, dunque che male c’è? Lo trovo spietato.

Dunque quando David mi chiede le scarpette io gli dico “dipende da Salif, magari domani te le da, incha allah”

Incha allah. Se Dio vuole. Qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa di cui si parli, un senegalese non omette mai di parlare di Dio o rendergli grazie. Quello che succede intorno a me, ogni volta che apro un discorso con qualcuno, è che si solleva una sorta di aura mistica in cui ogni cosa esiste grazie a Dio, dove tutto il bene che entra nelle giornate, è grazie a Dio, dove se arriva la morte, arriva per volontà di Dio, dove il dolore per i morti è camuffato in invocazioni alla Sua clemenza affinché l’aldilà possa accogliere il defunto nel migliore dei modi, con il perdono dei suoi peccati.

Rifletto moltissimo sulle scarpette da calcio e sul fatto che se uno le avrà sarà grazie a Dio. Quelle scarpette diventano per me il simbolo di tanti beni materiali che le persone sognano di possedere, anche per un solo istante (perché molti poi rivendono a altri per necessità) e il simbolo di quello che a ognuno è concesso di avere. Diventano anche il simbolo di tutto quello a cui noi occidentali ormai non crediamo più, e di quanta fede ci sia in un paese africano.

Perché noi non crediamo più a niente? Non so rispondere a questo, ma so perché in Senegal si respira una fede tanto forte. In Africa c’è talmente tanto bisogno di credere in qualcosa, che la fede è necessaria. E’ necessario trovare una giustificazione divina a tutto quello che succede e a tutto quello che non succede. Se non fosse Dio a decidere i destini di così tanti milioni di persone, il dolore da sopportare per l’ingiustizia subita dall’intero continente, sarebbe troppo forte. Questo credo. E così qualsiasi cosa che capita nelle giornate è destino. E’ destino se oggi c’è un lavoro e domani non c’è. E’ destino se un fratello muore di una malaria curata male e nessuno s’era accorto nei mesi precedenti che aveva smesso praticamente di mangiare. E’ destino se un bambino muore prematuramente di malattie che i genitori gli hanno trasmesso per una condotta sessuale non proprio prudente.

Io non credo che il mio destino sia stato scritto da qualcun altro. Non so se questo sia un punto a mio favore, ma sicuramente so di essere io a scrivere giorno per giorno le pagine del mio destino. La mia volontà. Io credo fortemente nella mia volontà e nelle mie capacità. E non solo ci credo, ma le uso per arrivare dove voglio arrivare.

Credo che il mio modo di pensare possa convivere serenamente con quello degli abitanti di Dakar. Non cercherò mai di imporre il mio punto di vista. Normalmente quando si parla, io pongo delle domande, per far riflettere: “Da quanto tempo non lavori? Stai cercando un altro lavoro?”
Dietro una domanda del genere, nascondo una domanda che vuole dire “se non muovi quelle chiappe, il lavoro non verrà a bussare alla tua porta”. Conosco le difficoltà nel trovare un lavoro a Dakar, ma continuo a credere fortemente che per arrivare a ottenere qualcosa, occorra innanzitutto tentare.

Una sera torno a casa sfinita da una giornata di ricerche che sembravano totalmente inutili e che vista la lentezza con cui procedevano, sembravano non portare proprio a nulla. Entro in casa e la prima cosa che Daour mi chiede è: “hai pregato oggi?”

I musulmani normalmente pregano 5 volte al giorno a orari ben precisi, con un rito ben preciso.
Io gli ho risposto con una domanda: “e tu?”
Ho visto Daour pregare solo quando è iniziato il Ramadan. Ma questo del ramadan sarà un altro discorso.

Lui ha detto: “no, oggi no”
Io ho detto: “io invece si, ho pregato sul car rapide mentre andavo a Sandaga”.

In quel momento, in soggiorno eravamo io, Daour, Pape e Salif. Premetto che io non so se il mio modo di credere faccia parte della religione musulmana o di un’altra religione, fatto sta che ogni tanto le mie riflessioni si rivolgono a un’entità superiore che spero vivamente che ci sia e mi protegga. Io non so se credo, ma sicuramente spero. Dunque provo. Un po’ come tentare la vincità al superenalotto. Uno prova e ci spera.

E così Daour sgrana gli occhi e mi dice che sul car rapide non è il luogo adatto per pregare. Io gli dico che Dio (l’entità superiore a cui do per convenienza questo nome) mi ascolta ovunque io sia e in qualsiasi momento della giornata, e non solo agli orari stabiliti per un musulmano. L’orario di ricevimento di questa entità superiore è 24 ore su 24, quindi mi permetto di disturbarlo quando voglio.

Gravissimo.

Sapevo che stavo entrando su un discorso minato, ma sapevo anche che la mia intelligenza non mi avrebbe fatto mancare di rispetto a nessuno.
Pape mi stupisce e nelle ore successive inizia finalmente la nostra amicizia. Pape dice “Daour, elle a raison, on peut prier et parler avec Dieu quand on veut”

Pape è un nipote di Salif e Daour. Ha circa 20 anni e studia all’università. Credo che faccia filosofia applicata alla legge, ma non ne sono sicurissima. Ad ogni modo, mentre Daour cerca di spiegare quanto sia importante rivolgersi a Dio in luoghi e modi “appropriati”, come se ci fosse un Dio che snobbi chi gli chiede aiuto dalla strada, dai car rapide, dalla spiaggia, o sdraiati su un letto, Pape fa partire un discorso che ho apprezzato infinitamente.

Pape dice che bisogna rispettare le religioni altrui, che non è necessario che io cominci a seguire le “regole” della religione della comunità in cui mi sto andando a inserire, che Daour deve rispettare il mio modo di pormi verso Dio, che di Dio ce n’è uno solo e che è differente solamente la modalità con cui la fede viene praticata. Pape dice che ha letto un libro di uno scrittore iraniano che si intitola “Perché non sarò mai un musulmano”.

Giuro, mi è sembrato vedere gli occhi di Daour quasi uscire dalle orbite. Per lui era inconcepibile leggere uno scritto del genere. “Non leggerò mai il libro di qualcuno che vuole convincermi a cambiare religione o trovare dei lati negativi nella mia religione”.
Sono stata felicissima delle risposte di Pape. Pape diceva che è importante per chiunque cercare di conoscere il punto di vista di chi la pensa in maniera differente. E la discussione, fino all’ora di cena, è andata avanti così, con me e Pape che cercavamo di far comprendere a Daour che il libro non è stato scritto per far convertire i musulmani, ma solamente per raccontare un modo di vedere le cose da parte di chi ha studiato il corano, ha letto tanti testi sul muridismo e i murid, e ha avuto modo di argomentare le sue tesi sul perché non si trovasse in sintonia con la religione musulmana. E un Daour scioccato dall’idea che altri possano scrivere libri del genere o trarne spunto per abbandonare Dio. Inutile spiegargli che non era un libro-invito a smettere di credere, ma un testo che spiega per quali ragioni lo scrittore non vuole essere musulmano.

Daour sminuisce il tutto dicendo che questo libro è stato scritto solo per far soldi e per danneggiare la comunità musulmana. E si augura che nessun altro musulmano lo legga.

La discussione mi ha permesso di cogliere differenti lati di questo nuovo mondo. Ci sono gli “anziani” e ci sono i “giovani”. I primi, come in tutte le parti del mondo, non accettano il cambiamento, le proposte di allargare il proprio punto di vista, e le tesi contrarie a quello in cui si è sempre creduto. I secondi, curiosi, attenti a tutto quello che succede nel mondo, interessati all’incontro con il diverso, interessati a uno scambio con il prossimo, interessati soprattutto a non chiudere gli occhi come i loro “anziani” hanno fatto tante volte.

Pape sta crescendo bene. E’ un musulmano che non disdegna l’incontro con la diversità e accetta che qualcuno possa non pensarla come lui.
Quel giorno è nata un’amicizia, una complicità e è stato uno dei giorni in cui mi sono sentita parte di qualcosa. Quando vivrò a Dakar, Pape sarà li con la stessa voglia di parlare e di ascoltare di quella sera. E’ una delle ragioni che mi fan stare bene e sentire al sicuro.

Non scorderò la violenza con la quale Daour voleva imporre il suo punto di vista senza neanche dare argomentazioni valide. E non scorderò mai le risate mie e di Pape alla vista di ogni vena del collo di Daour che si gonfiava. Un alleato. Ne avevo proprio bisogno. A volte a Dakar mi sento molto sola. Non lo nascondo e non lo negherò mai. Pape mi ha dato grandi soddisfazioni e quel giorno ho sentito di volergli proprio bene.
Ho un nipote a Dakar. E questo è uno dei motivi per cui comincio a pensare anche io che “ça ira”.

(Scritto il 13 settembre 2009)

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