Senegal: 20 Dicembre 2008 - Dakar, Una toubab invisibile e i talibé di Patte d'Oie

Sono invisibile. A Dakar che io ci sia o non ci sia, non ha importanza per nessuno. E’ la mia prima sensazione in questa città. Mi fa male. Non riesco a comprendere come mai qui nessuno si accorga di me.

Prendo il mio primo car rapide da Guediawaye il mio secondo giorno. Destinazione Patte d’Oie. I car rapide in Senegal sono quello che i matatu sono in Kenya. O per lo meno svolgono la stessa funzione perché come struttura sono un po’ differenti. Mentre i matatu all’interno hanno sedili disposti uno dietro l’altro, sui car rapide i sedili sono composti di due file, una di fronte all’altra, ai lati del veicolo, più due file di sedili disposti uno dietro l’altro. E non si entra da uno portellone laterale, bensì da dietro. Si, sul car rapide gli sportelli sono dietro, e anche l’omino addetto al ritiro dei soldi dei biglietti, sta dietro.

Mi rendo conto che inizio fin dal primo giorno il gioco delle differenze con il mio Kenya. E’ necessario per me fare il paragone, quasi a voler trovare obbligatoriamente dei lati più positivi in Senegal, per poter giustificare il fatto che quest’anno non sono stata in Kenya.

E così salgo sul car rapide dove mi viene immediatamente offerto un posto a sedere. E penso che questo i senegalesi lo fanno sempre anche in Italia. Quando li trovi sul tram, in metropolitana, vedi sempre un senegalese che offre un posto a sedere a una persona anziana. Certo, io non sono una persona anziana, ma fatto sta che a Dakar mi han concesso un posto a sedere.

Noto immediatamente qualcosa di speciale in tutti i viaggiatori dei car rapide. Sono tutti composti, molto educati e gentili. Ogni volta che qualcuno sale sulla vettura, saluta tutti con un “Salam Mailaikum” molto discreto a cui viene risposto quasi in coro “Mailaikum Salam”.

Imparo presto e comincio a rispondere anche io così. Ricevo in cambio dei sorrisi e sguardi d’intesa.

Ma nonostante questo primo inizio, continuo a sentirmi invisibile.

In Kenya i mzungu, quelli che in Senegal si chiamano Toubab (i bianchi), non passano mai inosservati. Sarà che vedere un mzungu in Kenya significa vedere un bel gruzzoletto d’euro che cammina, sarà che in Kenya e nello specifico a Diani conosco tantissime persone per cui è impossibile salire su un matatu e non venire riconosciuta e salutata da qualcuno, sarà che ho il terrore di rendermi conto di aver fatto la scelta sbagliata, comincio a sentire un disagio che mi accompagnerà a lungo. Non riesco ancora a capire se Dakar mi accoglie o mi respinge.

Non riesco a capire se sono io a porre resistenza o se entrambe non ci piacciamo molto. Fatto sta che mi rendo conto che fin dal primo giorno, ovunque mi trovi, se sto seduta, i piedi restano sulle punte. Mi rendo conto che non voglio rompere nessun equilibrio, in quel mondo così perfetto, che pare funzionare egregiamente anche senza di me, in questo mondo fatto di donne bellissime che indossano abiti coloratissimi e emanano profumo d’incenso, in questo mondo di bambini educatissimi e cordiali, in questo mondo dove nessuno pare vedermi.

Patte d’Oie

George mi aveva detto di scendere alla stazione della Shell. Sul car rapide parlo con un signore che ha in braccio una bimba piena di colori e di treccine. Si chiama Fatou. Mi sbava un braccio da quando ho lasciato Guediawaye. L’ho lasciata fare perché è l’unica che non mi ha ignorata. Dico a quest’uomo se può indicarmi il luogo esatto in cui devo scegliere. Lui si offre immediatamente di aspettare insieme a me l’arrivo di George, perché non vuole che mi perda o che qualcuno mi disturbi per strada. Lo rassicuro e lo ringrazio, non ho paura della strada. Non vedo l’ora che qualcuno mi noti, come mi avete notato tu e la tua piccola. Questo penso quando lo saluto.

A ogni fermata del car rapide noto sempre dei bambini che si affacciano dallo sportello posteriore e dicono delle parole che non sembrano neanche wolof. Hanno in mano un barattolo di latta rosso e vuoto. Probabilmente un tempo conteneva dei pomodori pelati. Ora se sono fortunati, contengono qualche monetina.

Capisco che stanno chiedendo l’elemosina. E penso in principio: “ecco, il fenomeno Toubab ha inizio”. E invece non erano li per me. Non chiedevano solo a me. Chiedevano a tutti quelli che erano con me sul car rapide. E noto anche che spesso chiunque da loro qualcosa. Non capisco. Chi sono quei bambini? E perché ce ne sono così tanti? Penso ai bambini di strada di Nairobi, penso ai bambini di strada di Marrakesh, penso che avevo letto che a Dakar avrei incontrato i Talibé.

E eccoli. Credo che siano proprio loro i talibé.

Talibé vuol dire “allievo che studia il Corano”: nelle società islamiche dell’Africa occidentale, i genitori generalmente considerano l’educazione religiosa dei figli un dovere fondamentale ed è pratica diffusa nelle zone rurali mettere i figli al servizio dei maestri del Corano – marabout in Senegal – il quale li prende a carico ed assicura loro un’educazione religiosa. In questa visione tradizionale, la mendicità assume valore pedagogico, in quanto simboleggia l’umiltà: il talibé passa di casa in casa, un’ora al giorno, e recita versetti del Corano, ricevendo in cambio un piccolo dono come contributo alla scuola coranica. I genitori sperano che i figli acquisiscano disciplina ed autonomia e percepiscono la formazione coranica come il miglior modo di ascensione sociale. Infine, in un contesto di crescita demografica estremamente elevata, le famiglie “risolvono” il problema delle troppo numerose bocche da sfamare ed assicurano un tipo d’educazione che non è fornita né dalla scuola francese né da quella araba.
Anche nel daara, ovvero il luogo dove i giovani si riuniscono per apprendere il Corano ed i valori islamici, la sopravvivenza è difficile: il marabout riceve i giovani in affidamento, ma le famiglie non possono contribuire alle spese. La conseguenza è che questa piccola comunità è costretta a spostarsi verso la città, alla ricerca di mezzi di sussistenza e di redditi.

I talibé vivono quindi lontani dalle famiglie e trascorrono una gran parte della giornata ad elemosinare il necessario per sopravvivere e per poter versare al maestro una cifra giornaliera ed evitare le violenze che il marabout spesso infligge se l’importo consegnato non è sufficiente. Il tempo dedicato allo studio è quindi limitato. Questa categoria è la più numerosa: sono l’89 per cento del totale dei bambini mendicanti.

Mentre rifletto sul pugno allo stomaco ricevuto alla vista dei bimbi scalzi di Dakar, il papà di Fatou mi dice che dobbiamo scendere. Gli dico che se non è la sua fermata, non deve preoccuparsi, che saprò cavarmela da sola e lo ringrazio per aver avuto cura di me in quel mio secondo giorno in punta di piedi.

Patte d’Oie è piena di vita. Car rapide che sfrecciano e suonano a ogni angolo, persone che attraversano la strada e bloccano il traffico, per quanto possano bloccarlo ulteriormente, voci del mercato, bambini che si rincorrono e eccoli, quelli che diventeranno i miei talibé per circa 5 giorni.

Mi avvicino alla stazione della Shell e mi siedo su un gradino, che io chiamerei gradone, perché piuttosto alto. Come api attirate dal miele, ecco i barattoli di latta rossi materializzarsi davanti ai miei occhi. I bambini recitano per me qualcosa in corano e io dico che non capisco.
Uno di loro pare particolarmente incuriosito da questa toubab che si siede su un gradino a Patte d’Oie. Si siede accanto a me e mi chiede che faccio.
Gli dico che aspetto un amico e che se vuole può aspettare insieme a me. Mi dice: “davvero?”

Davvero. Come se nessuno l’avesse mai invitato a sedersi accanto a lui ad aspettare. Come se la sua vita fosse fatta di corse e di poco tempo per aspettare, come se aspettare non gli fosse mai stato concesso, come se di gentilezze ne avesse ricevute ben poche.

Il mio talibé si chiama Omar. Mi racconta che la sua famiglia abita a Guédiawaye e rimane veramente stupito del fatto che anche io vengo da Guédiawaye. Mi chiede se lo sto prendendo in giro. No, Omar, non ti sto prendendo in giro, perché dovrei? Gli chiedo come mai chieda l’elemosina per strada. Voglio sapere tutto di lui e capire perché si trova a Patte d’Oie alle 10.00 del mattino del 20 dicembre 2008, invece d’essere a scuola. Mi spiega che la sua famiglia l’ha affidato a un Marabout da diverso tempo, che due anni fa lui andava a scuola e che gli piaceva anche molto, ma da quando ha iniziato la sua vita nel daara, non può più tornare a scuola.

Che cos’è il dara? Mi chiedo. In questo momento so solo che dara in wolof vuol dire “niente”. Omar vive in un posto chiamato niente, nel nulla. Questo mi dico. E la stretta allo stomaco si fa sentire sempre più forte.

Non so ancora che cosa si nasconde dietro le storie dei talibé, fatto sta che vorrei già piangere. Non solo sono invisibile in questa città, ma quello che è visibile ai miei occhi mi massacra. Senza conoscere le ragioni che spingono le famiglie di tanti musulmani a mandare i propri figli dai marabut, senza sapere che ci sono marabut ritenuti delle grandi guide spirituali, senza sapere che altri marabut si approfittano del loro ruolo per poter far soldi alle spalle dei piccoli talibé, ingenuamente comincio a dire a Omar che dovrebbe provare a tornare a casa sua, perché la sua mamma potrebbe avere nostalgia di lui.

Mi racconta di un tempo in famiglia in cui il nuovo compagno della sua mamma lo massacrava di botte e che lui si sente fortunato a essere scampato al suo passato, che pensa alla sua sorellina e alla sua mamma e si chiede se stanno bene. Mi dice che ha paura di tornare a casa perché potrebbe essere picchiato ancora. Gli dico che se vuole l’accompagno io a casa sua.

Lui mi dice che se proprio voglio accompagnarlo da qualche parte, potrei accompagnarlo un giorno in fiera, dove avrebbe l’opportunità di vedere tanti libri. A lui i libri piacciono, mi spiega. Nella mia totale ignoranza, continuo a cercare di “rieducare” questo piccolo angelo dicendogli che non è bene chiedere l’elemosina per strada, che dovrebbe riprendere a andare a scuola, e studiare fino a che un giorno i suoi studi gli permetteranno di trovare un lavoro, e allora avrà soldi suoi.

Alla luce di quanto ho poi imparato in seguito, mi rendo conto che sapevo ben poco della struttura della società senegalese, e della sua cultura. Sono arrivata a Dakar completamente ignorante. Non ero invisibile. Non ero toubab. Ero ignorante. E gli ignoranti forse a Dakar sono invisibili agli occhi.

Omar e gli altri piccoli di Patte d’Oie diventano il mio appuntamento fisso per 5 mattine di seguito. Presto anche gli altri si sciolgono e si lasciano andare a qualche confidenza, a qualche abbraccio e qualche bacetto, con questa toubab che continua a fare domande, come se il mondo da cui viene fosse diverso.
Leggo sempre nei loro volti estremo stupore a ogni mia domanda. Ma come, non lo sai che è importante aiutare il prossimo? Questa una delle loro domande alla mia constatazione che tutti i passanti lasciano qualche monetina a questi bambini senza scarpe, e si raccomandano tutti che dividano il gruzzoletto in parti uguali. “Partager”, condividere, spartire, è qualcosa che in Senegal viene insegnato fin da piccoli.

Non esiste il mio e il tuo, esiste il nostro. Non esiste che se tu hai un piatto di riso io non possa mangiare con te. Tu spontaneamente me l’offrirai prima che io ti dica di avere fame. E’ straordinario quello che ho visto. L’educazione e il rispetto verso il prossimo non mancano in nessuno. Dakar è una città educata. Disordinata, rumorosa, inquinata, calda, viva e piena di gente educata, gentile e altruista.

Il mio primo giorno a Patte d’Oie diventa l’inizio di un percorso di apprendimento sulla vita dei talibé e su quella di tutti i lavoratori che si ammassano a una certa ora per prendere i car rapide e correre al lavoro. Correre è una parola che forse non dovrei usare. Nessuno corre. La flemma con cui tutti si muovono è incredibile. Forse per non rompere l’armonia che si crea in tutto quel disordine, forse per non sollevare ulteriore polvere che potrebbe attaccarsi agli abiti, forse per un’innata capacità di non farsi travolgere dagli eventi e dal tempo, forse per semplice consapevolezza che la fretta non porta da nessuna parte, tutti continuano a sorridere e salutarsi per minuti infiniti anche se il ritardo al lavoro è più che certo.

Mi sento sempre spettatrice di un mondo che continua a andare avanti benissimo senza di me. Ma chi ci ha messo in testa che dobbiamo andare in Africa a intervenire sulla vita locale per renderla migliore? Chi ci ha dato il diritto di pensare che il nostro stile di vita sia migliore?
Voglio avere dei figli educati, penso. E l’educazione non spetta solo ai genitori ma anche alla società. E a Dakar tutti si impegnano nell’educazione dei più piccoli. Tutti.

Ogni giorno, i talibé di Patte d’Oie aspettano il mio car rapide come se ormai fosse una certezza che io ogni mattina vada a salutarli. E si prendono una pausa insieme a me. Si siedono, mi raccontano le ultime novità, chi ha dormito per strada quella notte perché non ha fatto in tempo a ritornare nel dara, chi si è svegliato presto per portare un piatto di riso a chi non è tornato al dara quella notte, chi ha iniziato presto il tour tra le famiglie a chiedere un po’ di cibo da portare al dara. Insomma, comincio a capire che ognuno di loro ha un ruolo.

E nessuno fa niente solo per sé stesso. Tutto è fatto per la condivisione nel dara a fine giornata.

Per quanto non sia d’accordo che tutti questi bambini siano in strada a chiedere l’elemosina, trovo dello straordinario in quello che fanno e nel modo in cui alcuni lo vivono. E’ come una missione di un videogame. E per ogni cosa conquistata, che sia una monetina, che sia un piatto di cheebu dien, che sia qualsiasi cosa, si completa un livello della missione.

Partager. Già, non lo sai che è importante aiutare il prossimo? Questa frase riecheggia nella mia testa.

(to be continued...)

1 commento:

Flavia ha detto...

Ciao Roberta!
Mi accorgo solo ora che hai aggiornato il blog.. sono sicura che pian piano, nonostante i tuoi impegni, riuscirai a racconte ogni tua piccola grande esperienza vissuta in Senegal!
Io continuo a seguirti..sempre con il sogno di andare in Kenya e di poter viaggiare come fai tu..da sola e in piena libertà, alla ricerca di nuovi mondi e nuovi occhi!!
Ti faccio sempre tanti auguri..
Busu
Flavia